venerdì 30 novembre 2007

1 settembre 2003, il compleanno di Carmelo Bene a Roma.

di Mauro Marino

C’era Roma, Carmelo, il Salento e la Francia. Lunedì 1 settembre, la città di Roma, nel giorno del suo compleanno, ha reso omaggio a Carmelo Bene. La bellissima sala milleduecento dell’ auditorium Parco della Musica progettato da Renzo Piano ha ospitato l’evento che ha visto nella capitale il debutto della Fondazione l’Immemoriale, presentata nelle sue finalità di divulgazione dell’opera totale di Carmelo Bene, da Piergiorgio Giacchè, ma soprattutto, ha manifestato la necessità, della città del Suo esordio teatrante, di confermare il legame con l’opera del Maestro. Che emozione, sentirsi lì! Salentino, conterraneo del maestro, parte di quella terra che in lui trova la massima qualità espressiva. Quale pregio la sua caratura poetica, il suo pensiero nobile e plebeo insieme, che fa il teatro, palestra di celebrazione dell’opera di un Tempo continuamente tradito e negato nel suo inesorabile fluire. Quella voce nell’assenza del capolavoro attorale, torna a far vibrare le corde del nostro amore e della nostra passione. La serata s’è aperta e s’è chiusa con l’ascolto de L’Infinito di Leopardi. I versi, venivano da un leggio e da un microfono vuoti dell’artefice, strumenti di lavoro nella mancanza, evocativi della sua pratica e della sua dedizione. La presentazione della traduzione a cura di Jean-Paul Manganaro che ha lavorato inseguendo la sonorità delle parole - di Nostra Signora dei Turchi, prima opera scritta del maestro e prima ad essere pubblicata oggi in Francia, ha aperto l’incontro e le parole intorno al lavoro beniano. Silvia Pasello, attrice con lui nel Macbeth Orror Suite ne ha letto alcune parti. Il palazzo moresco di Santa Cesarea, gli scogli, il mare, i teschi dei martiri nella cattedrale, scorrono sul grande schermo e ancora quella appartenenza mai retoricamente portata, viene fuori, forte d’una tessitura che inesorabile dichiara radici in uno spaesamento barocco, anarchico e folgorante. Poi, la visione del Lorenzaccio, tolto di scena da CB nel 1986, quando decide un operare solitario svincolato dall’impegno di sostenere, motivare e gestire una compagnia Il drammautopia di De Musset che debutto nel 1896, impossibile da rappresentare, traversato da 39 scene e da cento personaggi, tradizionalmente agito al femminile, è presentato in una versione digitalizzata a cui Carmelo ha direttamente lavorato, ultimo suo impegno in vita, volendo con quest’opera riapparire. Chiara, viene la sua potenza critica, il suo negar alla Storia la vicinanza all’uomo, all’operare per la bellezza. Ascoltando, chiara è venuta l’opportunità che il Salento ha di poter affermare con Carmelo la qualità della sua cultura, necessaria è dunque una concreta responsabilità delle Istituzioni che nella fondazione sono presenti per diritto, di servire umilmente la sua ultima volontà che nell’Immemoriale contempla la possibilità di rimanere viva ed operante.

E’ necessario sottolineare questo, anche perché a Roma, incomprensibilmente assenti erano la Regione Puglia e il Comune di Otranto. Sola, a rappresentare l’attaccamento al progetto di continuità, affidato da Carmelo Bene alla fondazione, la Provincia di Lecce, rappresentata dall’assessore alla cultura Remigio Morelli. Non so quali sono i motivi di questa assenza, ma come salentino mi sono sentito offeso e preoccupato. Non si tratta credo di presenzialismo, si tratta di affidare fiducia e strumenti ad un organismo che è in atto per volontà ultima del Maestro. Lo statuto della fondazione coincide con il testamento, un atto politico e trasversale, provocatorio e sollecitante che affida alle persone che vicine e utili,sono state negli ultimi anni di vita, il destino della sua Opera, nel momento in cui necessario è, aprire e promuovere l’incontro e il confronto della cultura italiana ed europea con l’opera di colui che più d’ogni altro con costanza e caparbia a donato al teatro un infinito di lavoro nella ricerca. Un dono alla fine della serata, gradito, a rinsaldare memoria, è stato fatto a tutti gli intervenuti: A CB, a Carmelo Bene, un libro a cura di Gioia Costa che raccoglie immagini, brani di vita, lampi del ricordo, suggestioni e parole nate quando la sua voce si è spenta e che coinvolge gli amici e tutti coloro che con lui hanno scritto, composto, recitato, pensato le scene, le luci, le musiche e l’immagine della sua arte.

Settembre 2003

Il Teatro e le Nuvole

Il mestiere dell’attore

per una educazione sentimentale

Mestiere|

esercizio di una attività lavorativa, frutto di esperienza e pratica.

Conoscere il proprio mestiere, essere abile e capace di un determinato lavoro.

Non essere del mestiere, mancare di pratica.

C’è sempre più diffusa attrazione per i mestieri legati allo spettacolo. Propagazione di virus mediatici; suggestioni del ‘successo patinato’ veicolate da format televisivi, ‘provinature’ e casting che disincantano la verità, l’appassionamento, quel seme, che genera e propaga, quel lento sedimentare fatto di curiosità, di sacrificio e di costanza; di ricerca e di sperimentazione. Provarsi, per definire il proprio sé, il proprio stile, la propria lingua. Rigore, strana parola. Parola necessaria che del mestiere è parte, fondamento e recinto del fare, del creare. Parlo di mestiere perché ritengo che questa sia la condizione dell’attore, del danzatore, del cantante, del creatore d’arte. Mestiere, perché è nella condizione artigiana che si consolida quella conoscenza, quella unicità che da forma ad un interprete. All’artista. Non c’è dunque una ‘professione’ da imparare, ma un percorso formativo a cui aderire, per corrispondere a quell’impulso, a quel desiderio/necessità di donarsi nell’atto creativo, nel tentativo di verificare e di corrispondere al proprio talento, di ‘certificare’ la propria vocazione. Farsi attori, costruire teatro, è costruire pratiche di attenzione e di ascolto, capaci di valorizzare la vita con le sue urgenze, i danni, le necessità, i valori di bellezza, le ferite e le opportunità.

La costruzione teatrale accade al presente, nel pieno esserci che, rompe l’assedio del giudizio, del non sentirsi in grado, dell’imbarazzo, della vergogna, della paura. Il teatro è gioco catartico, leva valorizzante di un processo relazionale capace di intercettare stimoli, frammenti di senso, comportamenti, lingue, che tenuti insieme, danno corpo all’agire, fanno la scena possibile, concretamente vicina alla necessità del dire che la motiva e la rende credibile, al di là della retorica e della leziosità, al di là di ogni patinatura. Già, il dire! L’ atto creativo si nutre di incontri, attitudini e vocazioni che scelgono di interagire, di darsi obiettivi e territori. Il teatro è luogo possibile di una sintesi che accoglie poesia per comunicare poesia. La parola, scritta e detta, la parola agita, portata al corpo: la poesia - complessità nell’ approccio col Mondo, visione della vita. Luogo di una comunicazione sensibile e altra, capace, nel tentativo, di stanare il segreto che l’esperienza della vita trattiene. E’ dunque necessario, per l’attore, il danzatore, il cantante, per il creatore d’arte un lavoro intorno a quella soglia labile che fa catarsi l’esperienza della parola, la voce sentita, detta, scritta. Il foglio, il corpo, col suo ricordare, col suo farsi magazzino di pratiche, di poetica. Il verso che è sempre racconto (simbolico, mai astratto) del sentire d’ognuno. La poesia è atto concreto, intimo. E’ soprattutto accorgersi. E’accoglimento del sentire, dell’affermare, dello svelare, prima di tutto a se stessi ciò che risuona col dire, quel carico capace d’alleggerirsi quando riesce a snidarsi e a nascere parola, svelante, vibrante, lirica ed epica, semplice verso che fa conforto, sfogo, preghiera e canto.

Per questo ritengo necessario un ritorno all’esperienza della pratica teatrale, come azione volta alle singole individualità in una tensione profondamente corale - di gruppo che si mette alla prova, insieme gioca, sperimenta, ricerca, affina il dire, la propria unica lingua - capace di mettere in gioco corpo e presenza. Sentire sé e la coralità nell’attenzione aperta alla dinamica che la scelta di messa in scena elabora, esserci come corpo agente, essere azione, inoltre al sentimento del limite. Agire la scena è dimenticanza del sé, depensamento (Carmelo Bene), è puro atto, rito, respiro e sudore. È, soprattutto, disattivare la pretesa di apparire, del mostrarsi belli, senza disagio. È farsi umili, vicini alla propria inquietudine. È comunanza d’esperienza, tecnica necessaria verso lo svezzamento delle personalità, che trovano ruolo vocazionale nel gioco della mettere in scena. Nel gruppo. Che condivide responsabilità e cura nel fare insieme, attenzione e dimenticanza, di un sé pensante e critico che trova abbandono nel suo servire l’intento creativo, l’opera comune, dove l’uno è perché è con l’altro.

di Rossano Astremo

La poetica di Carmelo Bene.

Una possibile lettura

Dopo “ÒperÉ”, cioè Orfeo per Euridice, romanzo, edito da Besa, che attualizza una delle grandi icone leggendarie della mitologia greca, il regista e autore teatrale Stefano di Lauro torna nelle librerie con “La mosca nel bicchiere – La poetica di Carmelo Bene”, libro edito da Icaro. Il lavoro in questione, saggio volto a rintracciare gli elementi di poetica che hanno fatto da substrato teorico al lavoro attoriale del maestro di Campi Salentina, deve la sua idea di fondo e la sua articolazione alla tesi di laurea scritta da di Lauro molti anni fa. A ciò si è aggiunto un necessario lavoro di riscrittura, di riformulazione e di rielaborazione che ha poi portato alla stesura ora pubblicata. In “La mosca del bicchiere” di Lauro, attraverso una sua scrittura sempre spigolosa, a tratti complessa, mette in rilievo le fonti del pensiero di Carmelo Bene, tramite un’analisi di tutta la sua appendice libraria e, più nello specifico, delle sue scritture teoriche. L’autore suddivide la parabola artistica di Bene in quattro momenti salienti: dagli inizi della carriera al 1968; dal 1968 al 1973 (la fase cinematografica); dal 1973 agli anni ’80 (la grande stagione shakespeareana e non solo, ma anche i “concerti” con voce amplificata e la conseguente ricerca sulla phonè); 1988-1990 (la Macchina Attoriale). Poco spazio viene concesso all’ultimo periodo della vita di Bene, quello che va dal 1990 sino alla morte, avvenuta il 16 marzo del 2002, considerati “anni di silenzio, malattia, e autoreclusione, punteggiati da riprese, salvo poche novità che tuttavia non aggiungono nulla al sue percorso che può dirsi compiuto con l’Achilleide (1989 e 1990, ripresa solo un’altra volta nel 2000)”. In questo viaggio per tappe successive tra le fonti della poetica beniana, l’idea forte che a più riprese sottolinea di Lauro è l’assoluto legame con la cultura otto-novecentesca europea. Ecco quindi la comparsa di riferimenti a Baudelaire, Byron, De Sade, Bataille, Nietzsche, Schoupenhauer, Lautréamont, Leopardi, Kierkegaard, per un saggio che si propone di essere divulgativo, atto primo per entrare in contatto con uno dei più grandi artisti del nostro Novecento, che farà, di certo, come è già successo in altra sede, storcere il naso ai “puristi beniani”, per nulla convinti di questa interpretazione forzata della complessità teorica del Bene pensiero.

Articolo pubblicato sul mensile “Salento Express” di novembre

giovedì 29 novembre 2007

di Eliana Forcignanò





“La mosca nel bicchiere”, ecco la poetica di Bene


Perché di Carmelo Bene (Campi Salentina, 1937 – Roma 2002) non si potrebbe o dovrebbe parlare? Forse, perché si tratta oramai di un mito, tuttavia i miti si costituiscono proprio attraverso la parola che li tramanda di gente in gente e la mitopoiesi è un’attitudine irrinunciabile dello spirito umano. Il razionalismo critico, però, ci suggerisce anche che i miti vanno indagati e contestualizzati al fine di comprendere le radici della loro grandezza e, se necessario, rielaborati senza cadere in una sterile agiografia. In altre parole, il contesto, la temperie culturale dal cui interno il mito “fuoriesce” è essenziale e merita di essere analizzata con acribia. Questo il lavoro di Stefano Di Lauro che, per I Libri di Icaro, ha pubblicato “La mosca nel bicchiere”, un saggio sulla poetica di Carmelo Bene contestualizzata nel panorama culturale novecentesco. Il volume è stato di recente presentato alla Città del Libro da Mauro Marino e Maurizio Nocera.
Una ricerca profonda, impegnata, cristallina quella che l’autore ha condotto ponendosi l’obiettivo di analizzare la “poetica esplicita” di Bene, ossia quella testimoniata dagli scritti che di lui ci sono pervenuti.
Affrontare il Bene pensiero – come di Lauro lo chiama – è un’impresa ardua, soprattutto perché numerosi sono i riferimenti alla cultura decadente e alla filosofia dei secoli diciannovesimo e ventesimo. Di Lauro li individua ed espone con chiarezza, risalendo la corrente di un fiume il cui corso pare essere infinito: “Lo zibaldone cartaceo oggetto di questo studio – scrive Di Lauro – non ha nulla della trattatistica; il materiale esaminato, benché libraceo, per forma e asistematicità rammenta certi taccuini nei quali si mescolano senza criterio note e riflessioni”. È vero, però che Bene ha sempre perseguito l’idea di una “sintesi tutta wildeana di arte e critica” e le due poetiche – implicita ed esplicita – sono andate di pari passo fino agli ultimi anni, “salvo alla fine del suo percorso quando gli intenti teorici si fanno così ambiziosi e rarefatti da non poter essere soddisfatti ragionevolmente che al prezzo del silenzio”. È impressionante constatare il retroterra filosofico dal quale il Bene pensiero trae nutrimento: lo Strutturalismo, Nietzsche, Schopenhauer, Deleuze, con il quale Bene ha persino collaborato scrivendo il volumetto “Sovrapposizioni”.
Ora, perché è importante questo saggio sulla poetica di Carmelo Bene? Perché, fino a oggi, pochi si erano preoccupati di esaminare gli antecedenti filosofici del Bene pensiero, limitandosi a rintracciarne esigue scaglie soltanto nella poetica implicita. Di Lauro, invece, scende in profondità, arriva a sceverare quel tema così scottante del “superamento dell’umano” sul quale Bene ha improntato gran parte della sua opera. Inutile dire che il “superamento dell’umano” richiama immediatamente alla memoria l’Oltre-uomo di Nietzsche che si erge al di sopra del caos prodotto dalla quotidianità, per trovare un ordine proprio che esula da quello dell’homunculus comune. Ben nota è l’esemplificazione dell’Eterno Ritorno che fa rifulgere in tutta la sua potenza l’Oltre-Uomo il quale dice sì alla vita, sì all’ “aion” contro il “chronos”, sì all’”ambizione di eccedere l’umano attraverso la forza eternizzante dell’Arte”. L’Arte, com’è noto, è una delle vie di liberazione dalla Volontà enumerate da Schopenhauer anche lui campione del pessimismo che ricompare in, una conversazione di Carmelo Bene con lo studioso Umberto Artioli, riportata nel volume “La mosca nel bicchiere”. Ma Di Lauro rifugge da una collocazione generica dei pensieri filosofici che hanno ispirato Bene e assegna a Schopenhauer il posto che gli compete nel Bene pensiero, ossia quello di “educatore” Quanto all’arte come liberazione dalla Volontà, Bene puntualizza: “L’arte davvero mi fa schifo. Mi interessa più il patologico, cioè il non quotidiano ma quello che, diciamo, in psicoanalisi si chiama, chiamavano immaginario”. Di Lauro interpreta questa affermazione come un moto di stanchezza dell’ultimo Bene che punta all’“eccedenza in sé”, finendo con il teorizzare una “regressione all’increato”, nel tentativo di sottrarsi alla “tirannia del simbolico”. Accanto a Nietzsche e Schopenhauer figurano altri nomi illustri come Stirner, De Saussure, i poeti italiani Manzoni e Leopardi. Ma se il pessimismo di Manzoni trova una consolazione nella vita oltre la morte e quello di Leopardi nella solidarietà fra uomini, per Carmelo Bene non c’è nulla che l’uomo possa fare al fine di migliorare la sua condizione. “L’orizzonte leopardiano della fratellanza – scrive Di Lauro – non ha spazio nel Bene pensiero, condizionato irrimediabilmente da una struttura (psichica, linguistica) inerte alla ragionevolezza del Compromesso e che non contempla il mutuo soccorso come modus universale e duraturo”.
Un’altra questione che non può non affascinare il lettore è la religiosità di Carmelo Bene: Di Lauro lo definisce un “agnostico inquieto, molto inquieto”. Per il Salentino vale il socratico “oiomai me eidenai”, “so di non sapere”, eppure la sua ricerca, la sua fame di trascendenza non cessa. Nel teatro di Carmelo Bene, secondo Alberto Signorini, vi è un’infinita, impossibile “nostalgia dell’Altro” e quando si dice Altro non si può non pensare a Dio. Quella di Carmelo Bene – secondo l’opinione di Signorini – è una religiosità barocca che si ricollega a una teologia negativa. Di Dio non si può dire nulla, perché “già dire è compromettere”. Carmelo Bene iconoclasta, cattolico non nel senso tradizionale del termine, bensì nel senso di essere cosciente della propria finitezza, di vivere perennemente a disagio come Kierkegaard scriveva ne “La malattia mortale”. Questo sentirsi perennemente in colpa ricorda molto la devozione veterotestamentaria, quando l’uomo, lungi dal mettersi in un rapporto alla pari con Dio, si prostrava dinanzi all’Ente Supremo che non osava nemmeno nominare.

martedì 27 novembre 2007

Carmelo Bene a Campi Salentina - Ottobre 1995

































fotografia di Claudio Longo

Schegge di un genio

Stefano di Lauro
La mosca nel bicchiere
la poetica di Carmelo Bene

I libri di Icaro Poetiche 1

Oltre la scena, dietro le maschere dell’attore, “attraverso lo specchio”. La struttura intellettuale di un genio rivoluzionario, rigoroso, indisciplinato, beffardo. E inevitabilmente frainteso. Impervi ma non impraticabili sono i sentieri lungo cui si snoda il Bene pensiero, saldamente ancorato al decadentismo europeo, alla temperie culturale francese degli anni ’50, non meno che a un orizzonte mistico-teologico malgrado lo sbandierato ateismo. Con questo saggio, di Lauro ci offre una scansione degli scritti di CB, dotandoci così d’un "prezioso kit" per intenderne la poetica, ripensarne l’opera, nonché per meglio assaporare la stravaganza di certe memorabili apparizioni televisive. L’autore intesse, con certosina finezza, una sorta di dialogo tra l’artista salentino e i pensieri che hanno definito la sua estetica, e si prova a riconfigurare un paesaggio mentale organico a partire dalle schegge del genio, portando alla luce tanto i detonatori dell’urgenza creativa che l’insanabile mal di vivere. Una vita riarsa la sua, “dis-voluta” eppure così voluta.