venerdì 11 aprile 2008

Il teatro della verità


Abbiamo visto “Questo buio feroce” ultima opera di Pippo Delbono

Il nome è una danza essenziale che accoglie il suono, lo traduce. Atto del respiro. Il nome è ciò che noi siamo, nella danza della vita!
C’è un teatro di verità, dove gli attori portano la grazia di se stessi. Soltanto se stessi, nell’estrema cura e finitura della scena. Questo ha dimostrato l’“eccezionale esclusiva regionale” di “Questo buio feroce” ultima opera di Pippo Delbono, portata in scena lo scorso martedì 8 al Teatro Politeama Greco. Tutto è bianco. Anche il pavimento. Una voce dal fuori della scena racconta il pretesto di un piccolo libro trovato per caso e, il viaggio comincia. La morte è la meta. Comprenderla, accoglierla. Custodirla anche! Che è luce. Pura luce! Tutto bianco, asettico. Tutto bianco, come un attesa. Due ‘servi’ anche loro in bianco accolgono, accudiscono, protetti da maschere, guanti, scarpe di gomma: sono altro, loro, distanti, non umani. Siamo in un passaggio. In fondo, si apre il sipario e sfonda nell’ingoio del nero. E’ lì la fine? Non lo sappiamo, c’è un andare e venire. Non c’è fine allora, c’è la molteplicità dei numeri. I tanti noi che ripetono la Storia. Quella piccola che scrive quella grande. Levità e tragicità insieme, sontuosità e perdimento, insieme. Una Butterfly in rosso ha le gambe mozzate siede in carrozzina. Un uomo magro mostra il suo corpo, si muove piano, ogni cosa ed ognuno è estremamente attento. Lei mostra il suo respirare, soltanto quello, lui, con sorprendente voce e grazia recita e canta “My way”. Non c’è nudità, non c’è ostentazione è il pudore che muove ogni cosa. Con il silenzio che accoglie il venire delle “figure” dove trovi la corporarietà di Caravaggio, di Frida Kahlo, di Francis Bacon, di George Grosz. La macchina scenica serve piccoli oggetti il resto lo fanno i costumi. Non travestimenti ma respiri d’uomini e di donne e con loro epoche, comportamenti, abbissi. Ogni cosa è attenta, attenta, attenta. Calibrata in una disarmante naturalità. Son proprio quello, non fingono. Semplicemente sono lì. E un respiro, siamo noi, nello strazio del “non”, nelle stanze bianche della mente, dei sogni dove aspettiamo la “stanza della risonanza”. Il teatro ci fa guardare dove non vogliamo guardare. Il nome! Qual è il nome di ognuno di noi?! Il nome è una danza essenziale che accoglie il suono, lo traduce. Atto del respiro. Il nome è ciò che noi siamo, nella danza della vita! La nostra terra “è una specie di orrore”. “Pietà per la debolezza”, “per chi è sapientemente ridicolizzato, abbandonato”. Tutto scompare guardate. Guardate! Guardatelo! Guardatemi! Tutto scompare. Non siete ancora stanchi degli “intrattenimenti gradevoli”? Non siete ancora stanchi di voi stessi, della parola, della poesia, della preghiera”? E’ tutto buio, “un buio sconosciuto, dove non puoi entrare come te stesso” è il nostro Mondo. “L’identità” è “un gioco”. Un gioco e ogni giorno guardiamo la morte, e la morte guarda noi. Due arlecchini, portano pace e curiosità, sguardi. Pace non ce n’è mai stata! Il dopo della morte è la pace! “Mi sento invadere, e la pace è tutto intorno a me”! Delbono danza, danza, danza, il suo respiro.

Mauro Marino

venerdì 4 aprile 2008

A Carmelo Bene


A Carmelo Bene, in punto di morte,

ore 21,09 del 16 marzo 2002

Mi nutrirono di lagrime i nitriti dopo il crepuscolo

quando l’Immortalità si fermo alla stazione del Nulla

nella notte che una maschera e la gloria uscirono di senno

si mutò in rantolo di carne, come il Verbo, il tuo sguardo.

Fu l’abbecedario di una malattia moresca

a tradurre la lucciola libertina in notte eretica,

i nerastri cantici dei tuoi occhi in raccapricci di cera,

il pianto equino di una bambino nella cripta.

Smoccola il cielo, ossa!

Ti sei bardato della Grazia del vischio,

come pelle di Magenta è la tua Voce.

La gorgiera del tempo si sfarina…

Nei padiglioni il tuo furore tracima cenere,

come se la morte fosse altrove…

dove i dèmoni hanno smarrito l’anima!

dove gli dei hanno ceduto il corpo!


Antonio Sagredo

Vermicino, 19 marzo 2002



con un gelato di corvi in mano

vittorio bodini

regressione salentina


Con un gelato di corvi in mano

torchiavo con le dita il grumo dolciastro di un mosto,

sul capo mi ronzava una corona di gerani spennacchiati.

Crollavano lagrime di cartapesta dai balconi-cipolle,

giù, come vischiosi incensi.


Il barocco asfittico e piombato come una bara si spandeva

per la città, falsa e cortese, come un carro funebre.


Nella calura la nera lingua colava gelida pece!


Schioccavano i nastri viola un grecoro di squillanti: EHI! EHI!

come un applauso spagnolo!


Ma dai padiglioni tracimava il tuo pus epatico, bavoso…

risonava un verde rossastro strisciante di ramarro,

le bende, come banderuole scosse dal favonio, tra quei letti infetti


e brillava, l’afa!


Scampanava al capezzale delle mie Legioni

quel verbo scellerato, che in esilio, invano,

affossò il Canto!


Ma noi brindavamo - io, tu e l'attore - con un nero primitivo,

i calici svuotati come dopo ogni resurezione,

perchè la morete fosse onorata dal suo delirio!



Antonio Sagredo

Vermicino, 11 marzo - 4 Aprile 2008