domenica 9 marzo 2008

Adelchi

Adelchi
o della volgarità della struttura

Il buon senso c’era;
ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune.

Alessandro Manzoni


L’Adelchi è occasione per CB d’un concerto per voce, orchestra e coro, in occasione del bicentenario della nascita di Alessandro Manzoni (Milano, Teatro Lirico, 1984), e d’una pubblicazione scritta con Giuseppe di Leva, anche co-autore dell’adattamento teatrale.
Con questo “pamphlet, saggio, racconto, delirio”, gli autori forniscono un’inedita interpretazione del testo manzoniano, non priva di divagazioni e piacevoli forzature. L’esegesi, come recita il sottotitolo, tende a rendere manifesta la “volgarità del politico”: “politico” come aggettivo, ma anche come sostantivo. La prassi politica, non meno dei soggetti che la esercitano, sarebbero dunque volgari. Volgarità sta per cretinismo, idealismo, e per quant’altro impedisca al politico di agire in modo sensato. Volgare è l’incapacità di rendere la politica quel che dovrebbe essere: l’arte del possibile. Volgare è l’inettitudine che impedisce di prevedere una catastrofe, o di riconoscerne una già in progress, poiché è nota “la luminosa capacità della ‘politica’ di premere l’acceleratore in vista del pericolo”
(pg.25)

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Tutta la storia è storia della fonè.
Si dà rappresentazione solo nella pagina scritta; la storia redatta, che non è più quella storia.
Ogni storia redatta è immaginaria. Puoi rivisitarla unicamente attraverso il linguaggio. (Ri)viverla ‘originalmente’ quale messa in crisi del linguaggio. Attendibilità dei fatti (nel tuo produrti) è il tuo stile. E la mortificazione del tuo stile. Perciò ‘attendibile’ è solo il romanzo storico. O il ‘discorso’ su certa storia. Alessandro Manzoni è un maestro di Storia.


La dipartita di Adelchi non è pacifica, è solo pacificata. Al cospetto della morte egli accantona ogni risentimento per affidarsi completamente alla speranza cristiana. E a un passo dalla pace, può permettersi di compendiare nel “non resta che far torto o patirlo” il senso della vicenda umana, pago di lasciar suo padre vinto e spodestato, “in fra gli oppressi”.

Nel “far torto o patirlo”, l’autore - è chiaro - si benda un occhio, quasi a restituire una porticina d’Adelchi alla drammatica “attendibilità” della lettura. Chi come lui ha osservato la “Morale Cattolica”, ha congenito il concetto dell’agire-patire nel “far torto è patirlo”. E la benevola condiscendenza di quell’o alternativo è semplicemente la “ignoranza” di che l’autore si fa carico, per venirci incontro, ammainando il cielo della sua veggenza in cambio dell’attenzione nostra. È la tragedia un bel compromesso. L’abbandono ch’è nell’Adelchi: questo eccesso che nel respiro profondo dei Promessi è assente.23

A sottolineare il valore paradigmatico della “impraticabilità del possibile”, gli autori chiamano in causa un’altra vittima eccellente dell’incomprensione politica, un altro uomo del Compromesso con la c maiuscola: Aldo Moro.

E qui ripiove negli occhi la sequenza del funerale di stato d’Aldo Moro, in San Giovanni a Roma. […] Paolo VI, visibilmente commosso, patteggiava con Dio: “Tu che non hai voluto esaudire le nostre suppliche…” Quel pontefice piangeva il suo amico imbavagliato dal silenzio sempiterno ai suoi piedi, e il tono amaro, troppo umano e benevolo, sì, quel suo umile e strano “rimprovero” alla intransigenza “ingiustamente” severa di Colui “che atterra e suscita”; il tono, dico, trascolorava nel disappunto e nella indignazione malcelata e terribile per tanta Realpolitik al suo fianco innocente: laida (laica), sorda e muta, inconfessa e rea.24

Anche qui, il Compromesso come “eccesso centrale” si configura come l’unica soluzione assennata, ma patisce l’incomprensione delle “ideologie illuse degli estremi”, nonché l’intransigenza delle conventicole tolemaiche.25

Tu l’hai visto, o Signore: nello Stato delle stragi (di Stato), abbiamo sempre chiuso tutti gli occhi sui mutamenti febbricitanti dei riformisti e profferito il perdono di prammatica sulla volgarità dei “rivoluzionari” che continuano a ritenere “estrema” la propria tutta delirante smania d’attentare a uno stato per riconfermarlo Stato, “altro” solo nel gioco derisorio dei (ris)volti.26

E se persino la rivoluzione (ogni rivoluzione, come si desume dalla generalità della proposizione, prima inter pares quella che il Bene cantore di Majakovskij conosceva per segno27) è una falsa alternativa, niente più che la variazione anagrafica del nomen domini; ovvero, per dirla col Klossowski di Sade mon prochain, è un processo il cui solo risultato è l’assunzione da parte degli Schiavi delle prerogative dei Padroni; ebbene: la responsabilità dell’invivibilità della Storia smargina fatalmente dal “politico” al sociale, come s’è visto, e infine deborda in un’impossibilità strutturale, del resto già annunciata sin nell’ouverture del libro: tutta la storia è storia della fonè.

(pg. 35/34)

citazione da: C. Bene, G. Di Leva, L’Adelchi o della volgarità del politico, Longanesi, Milano 1984