mercoledì 21 maggio 2008

La mosca nel bicchiere

di Amalia Cecere

Carmelo bene: genio irrequieto e polimorfo della scena italiana, testimone protagonista dell’acre tenzone tra vecchio e nuovo teatro negli ultimi quattro decenni del Novecento, e nondimeno “autore-scrittore” di rara integrità, per l’elevatissima tensione linguistica ravvisabile nelle sue scritture tanto teoriche che letterarie. A cinque anni dalla sua scomparsa, Stefano di Lauro propone una esemplare commemorazione dell’artista salentino con La mosca nel bicchiere. La poetica di Carmelo Bene (Icaro, 2007), un volume assai pregiato per contenuti e fattura editoriale.

Sul teatro di Bene molto è stato scritto ad opera di insigni studiosi italiani e francesi; non altrettanto può dirsi della sua poetica, mai doviziosamente esplorata nella sua intierezza (logico-analogica, sincronico-diacronica), ove s’eccettui la pletora d’interventi sul “grumo teorico densissimo” della phonè. La mosca nel bicchiere è, per l’appunto, un’analisi complessiva del pensiero beniano, dagli esordi romani sino alla Macchina Attoriale, epilogo quasi totemico della phonè, ultimo atto d’uno sviluppo teoretico assai articolato del quale di Lauro esamina snodi consequenziali e aporie con una sensibilità e una misura che gli derivano da una profonda onestà intellettuale; un’onestà mai scalfita dall’indiscutibile ammirazione che pure trapela per il suo oggetto di studio.

La poetica beniana, è notorio, ridonda di citazioni intertestuali come pure di “divertissements irritanti e beffardi”. Il rischio fondato, in uno studio sui generis, è di “mutuare le maschere linguistiche del genio”, piuttosto che d’assecondare taluni inganni imputabili all’indole asistematica e naturaliter istrionica del Salentino. L’autore schiva questo rischio, informandoci, con un’arguta epigrafe in ouverture (cita da un “distico a pennarello su panchina veronese”), che “le parole c’erano già tutte / dovevi solo leggerle nell’ordine giusto”; con ciò già dichiarando il criterio di base che informa lo studio, quello della citazione diretta, o della giustapposizione di citazioni.

La mosca nel bicchiere “si prefigge, per quanto la materia lo consenta, d’essere chiarificatore e in qualche modo ‘divulgativo’; ovvero […] si prefigge di rilevare le ‘fonti’ del suo pensiero [di Carmelo Bene] al fine di meglio comprenderne l’evoluzione e di sbrogliarne le tortuosità costitutive.”

Di questi tempi, in verità, la parola “divulgativo” può prestare il fianco a non pochi malintesi. Ma appare immediatamente chiaro che la divulgazione a cui allude l’autore è ben lungi dall’intendersi quale semplificazione, e bensì contenga una verisimile allusione alla vulgata, ovvero alla traduzione “più fedele” delle Scritture, più fedele perché più aderente alle fonti. Nella fattispecie, le “fonti” sono duplici: le parole dello stesso Bene e una vasta porzione della cultura letteraria e filosofica contemporanea (romanticismo, decadentismo, irrazionalismo e strutturalismo; scontato il filo conduttore della teologia negativa e della mistica speculativa), a cui il Salentino fa assiduamente riferimento.

L’analisi, tuttavia, non resta su un piano di mera neutralità; essa si spinge a ipotizzare, col suffragio d’un’ampia collazione di citazioni, l’ipotesi dello strutturalismo come “orizzonte teorico più idoneo a ‘comprendere’ tanto i postulati che i paradossi della sua poetica.” La tesi, certamente inedita nel pur vasto ventaglio esegetico fiorito intorno all’opera beniana, appare felice e persuasiva.

Tra i quattro capitoli tematici che compongono il lavoro (su Adelchi, sulle fonti filosofiche, sulle fonti letterarie e sulla teatrica) si crea un fitto ordito di rimandi intertestuali: può così accadere d’intercettare il com-motus, la segreta vibrazione che scavalca d’un balzo la Storia e avvia un dialogo sincronico tra Adelchi e Lévi-Strauss, tra Manzoni e Lacan, tra l’urtante inverecondia beniana e i mistici afflati di Meister Eckhart, solo per citare alcune delle numerose corrispondenze.

Senza tema d’allocarsi fuori dal coro, come egli stesso dichiara, e tuttavia senza smarrire la debita umiltà scientifica (il monstrum Bene prestandosi per naturale disposizione ad approvazioni o dissensi risoluti; donde, come già si diceva, il rischio di generare un commentario apologetico o sinistramente speculativo), l’autore dipana il suo discorso con un’encomiabile probità interpretativa che mai rifugge dall’accurata argomentazione, e che non lesina utili inquadramenti atti ad agevolarne la fruizione. Un’idea di chiarezza tutt’altro che populistica, quella di di Lauro, che contribuisce, con discrezione e risolutezza, a spianare una via alternativa alla comunicazione della materia culturale, benché (o forse mercé) egli si consideri un outsider, un “cane sciolto”, come ama definirsi. Una visita al suo sito (www.stefanodilauro.net), invero accattivante, provvede i suoi lettori di interessanti ragguagli sulla poetica di questo ex teatrante, compositore, videomaker, drammaturgo, da poco “convertito alla scrittura per scongiurare i ricorsi dello scontento”. Il suo esordio editoriale risale allo scorso anno con un’insolita opera narrativa, ÒperÉ. È ben possibile che La mosca nel bicchiere, resti un unicum, un’incursione isolata nella saggistica, e che rappresenti, come si intende dal libro, una casuale (“ma il caso non esiste”, ci avverte l’autore) occasione di riconoscenza per i suoi Maestri.

Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”

ANNALI XLIX,2


domenica 11 maggio 2008

Del poeta, sempre, fanciullo!


di Vito Antonio Conte

Convivo con la follia: la mia. Campana mi fa compagnia. I Canti Orfici erano tempo fa. Oggi è Io poeta notturno. Si tratta di una raccolta di missive inedite di Dino Campana, pubblicate nella collana ocra gialla delle Edizioni Via del Vento. Qualche anno fa, su Musicaos, ho scritto delle diverse collane (oltre a quella già citata, ne conosco altre due: acquamarina e iquadernidiviadelvento) di questo editore toscano (con sede in Pistoia) e delle peculiarità e preziosità di questi libricini (di testi inediti nel formato 16 x 12), “usando” Sono fluito di Fernando Pessoa. Adesso faccio il contrario: il pretesto è il cenno all’editore per dirvi di Campana. Come posso. Come voglio. Non vi dirò della sua biografia: di Marradi, nell’Appennino tosco-emiliano, e di sua madre, Fanny, donna compulsiva, che trascurò Dino (quando nacque il secondo figlio, Manlio) al punto che l’assenza di affetto e le brusche reazioni materne segnarono l’inizio del male che contribuì alla fine del poeta in quel di Castel Pulci. Non vi dirò del suo divino cenciare errabondo reale e fantastico per luoghi che, invece di essere terre possibili, spesso, acuirono il suo disagio esistenziale (di Dino, che del nomadismo aveva pregna l’anima, sì da avere dell’esistenza una concezione anarchica e avventurosa). Nè vi dirò delle definizioni che, di volta in volta, critici invidiosi e letterati gelosi, sempre e comunque tardivamente, catalogarono la sua scrittura come frutto di un poeta visionario, allucinato, pazzo, orfico, vagabondo, mediterraneo. Nella migliore delle ipotesi. Invero, più spesso, Campana venne osteggiato, emarginato, deriso, escluso, ignorato. Nel mentre cercava unicamente di affermare il suo diritto di esistere. Neppure vi dirò di Boine, Novaro, Cecchi, Serra, Soffici e Papini (ed altri del suo tempo). Gli ultimi due, com’è noto, smarrirono il manoscritto dei Canti Orfici (originariamente titolato Il più lungo giorno) che Campana consegnò loro, nel dicembre 1913. Dello smarrimento Campana non riuscì mai a farsene una ragione. Sfidò Ardengo Soffici a duello. Minacciò di morte Giovanni Papini (memorabile una lettera del poeta a Papini datata 23.1.1916: “Se dentro una settimana non avrò ricevuto il manoscritto e le altre carte che vi consegnai tre anni sono verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia dovunque vi troverò”). Dopo averla faticosamente riscritta, pubblicò la raccolta, a proprie spese (si dice che fu organizzata –dal concittadino Luigi Bandini- una colletta tra ottanta persone, ma che alla fine soltanto la metà aderirono concretamente), nel 1914 presso il tipografo Bruno Ravagli di Marradi e ne vendette personalmente le copie in ogni modo. Il manoscritto fu ritrovato tra le carte di Soffici nel 1971 dalla figlia Valeria e, successivamente (nel 1973), pubblicato in due volumi dall’editore Vallecchi (cui, ironia della sorte, più di mezzo secolo prima, Campana aveva chiesto –invano- di pubblicarlo). Non vi dirò degli Autori che amava: Poe, Nietzsche, Whitman, Rimbaud, Verlaine, Eschilo… e Sbarbaro. E, ancora, non vi dirò della sua storia con Sibilla Aleramo (Rina Faccio) o di quella di Sibilla Aleramo con Dino Campana (…) e, credetemi, vorrei: è stato il rapporto amoroso e sessuale non solo più turbolento della letteratura italiana, ma anche densissimo di incroci, deviazioni, deragliamenti, curve e strade vietate da far invidia alla più grande metropoli conosciuta. Quando ho aggettivato il rapporto tra i due amoroso e sessuale, la disgiuntiva era voluta: sull’amore dell’Aleramo è stato detto di tutto e di più, ma è sufficiente leggere il carteggio tra l’Aleramo e Campana, pubblicato negli anni sessanta, per comprendere quanto quell’amore è stato incontenibile e devastante. Sulle prestazioni sessuali di Campana si dice fosse instancabile e pretendesse dall’Aleramo più di quanto (e, sicuramente, era molto) la stessa potesse. E, poi, sulla virilità del poeta, circolano diverse leggende metropolitane secondo le quali, nei periodi di internamento in manicomio, Campana si masturbava fino a quindici volte al giorno!?! Ma questo non lo dico. Invece, oltre l’essere debole e nevrotico, oltre le illusioni del crepuscolarismo e del futurismo, oltre ogni altra vana speranza di letteratura nuova, segnate dal sangue di Campana, dirò della sua avversione per lo studio e l’uso della metrica, del suo sentirsi il depositario dei segreti del mondo, del suo modo di disvelarli con i versi e del suo dolore per la miopia d’intorno, della sua rabbia per la cecità artata che lo costringeva a elemosinare la vita. E, dopo la riscoperta del 1968 ad opera del Falqui (noto il suo Saggio Campaniano su Novecento Letterario), desta senso sentirlo ancora definire poeta melodico e visivo, musicale e cromatico. O, nella più alta delle etichette, caposcuola della poesia moderna. C’è che la poesia di Dino Campana non è circoscrivibile nell’alveo di un movimento piuttosto che in un altro; non è classificabile secondo canoni ordinari; sfugge a qualsivoglia genere di definizione: perché è unica, com’è unico Dino Campana! E tanto emerge anche dalle missive raccolte in Io Poeta Notturno: mi piace ricordarne qualche passaggio: “Io sono un povero diavolo che scrive come sente: Lei forse vorrà ascoltare. Io sono quel tipo che le fu presentato dal signor Soffici all’esposizione futurista come uno spostato, un tale che a tratti scrive delle cose buone. Scrivo novelle poetiche e poesie; nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato. Aggiungo che io merito di essere stampato perché io sento che quel poco di poesia che so fare ha una purità di accento che è oggi poco comune da noi. Non sono ambizioso ma penso che dopo essere stato sbattuto per il mondo, dopo essermi fatto lacerare dalla vita, la mia parola che nonostante sale ha il diritto di essere ascoltata.” (da lettera a Prezzolini datata 6.1.1914). Da queste righe emerge tutta la fragilità e disperazione dell’uomo Campana e, ad un tempo, tutta la consapevolezza della potenza del suo essere poeta e, mi piace evidenziarlo, l’uso del verbo stampare in luogo dell’attuale pubblicare… Concetto che ritorna nella lettera a Emilio Cecchi, datata 2.5.1916, nella quale Campana denuncia: “immaginerà con quanto schifo sono obbligato a ricorrere a questi miserabili succhiatori del miglior sangue d’Italia che si chiamano editori. Abbastanza maramaldi ho già conosciuto per non aborrire certe nuove relazioni. Pure nella speranza di un qualche centinaio di lire eccomi qua a pregarla di darmi l’indirizzo di uno di questi cani la cui vigliaccheria assassina del pubblico da l’autorità di rubare senza disonore il sudore di noi saltimbanchi. (…) Non sono un vile e temo che la mia riserva di eroismo sia esaurita. Cardarelli mi scrive: crede in una gaia scienza: lui beato. (…) Confido che lui e altri più di me sapranno amare quel fantasma soleggiato di felicità che credetti intravedere molto tempo fa laggiù sul mediterraneo. Non creda che io lavori sul serio. Che cosa potrei fare. Il popolo è assente, la coscienza perduta e per diventare mistico non sono abbastanza vile. (…)”. Campana è fortemente deluso e incazzato per le sorti sue, della sua poesia e della poesia del suo tempo, ma continua a dire, con violenza, la sua condizione e le negazioni in cui si imbatte per affermare il diritto di vivere (seppur, anche) quella condizione. Fino allo stremo. Così andrà avanti. Fino alla dichiarazione ufficiale di essere pazzo della primavera del 1918 e a quella sorta di rassegnazione serena che si rinviene in una delle sue ultime lettere, quella scritta l’11.4.1930 a Bino Binazzi, nella quale, tra l’altro, dice: “Tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili…”.

E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera!

Chi non la conoscesse ancora la legga. È immortale. E Via del Vento è meritoria perché la fa circolare in quel formato (peraltro) di facile accessibilità.

sabato 3 maggio 2008

Lo spettacolo? Non serve!



Considerazione a margine della visione de
“Il sacro segno dei mostri” di Danio Manfredini

La parola del teatro, è parola ferma, netta. Unica: ciò che è detto, è detto!
Nell’ “infilata” si scrive il senso, frase dopo frase lo si chiarifica. Si dispiega la necessità.
Se tutto nasce da un’interrogazione, una volta giunti sulle “tavole”, si costruisce la risposta, la verità. Quella degli attori col loro agire e quella “ideologica” del testo.
Una sola interrogazione, un solo dubbio, è destinato al pubblico ne “Il sacro segno dei mostri”, la domanda, che con grande peso viene posta sul finire: “ a cosa serve fare gli spettacoli?”. La risposta, subito dopo, in scena è: “a niente!”.
Un’interrogazione da epilogo! Epitaffio per un mondo che sembra vivere solo di questo. Sedotto, compromesso, simbiotico, esso stesso solo spettacolo.
Rappresentarsi è il dettato.
Rimbomba quel punto di domanda, t’insegue, torna a sipario chiuso. Un leggero velatino, scende come una palpebra, si ri-chiude su una vicenda densamente autobiografica popolata dalla follia con tutti i suoi climi psichiatrici. Dalla “pax” di una ilarità sontuosamente sboccata, al deliro del tutto in malora, delle urla, del pianto, del “non ne posso più”.
Ma qual è il senso di quel chiedersi? Detto da dove è detto, lanciato da un palcoscenico? E’ il teatro che chiede, solo, sperduto col suo “denudamento”. A cosa serve lo spettacolo se non c’è condivisione, amore, comprensione?
La scena che Danio Manfredini costruisce è chiara: un interno con molte aperture di luce. Il giorno, con le sue temperature mostra la sala di una comunità psichiatrica. Ogni apertura porta dentro un anima. Una “anima tragica” che viene al cospetto a dire il suo male, inascoltata.
“Ho bisogno di protezione” dice una.
Tutti noi abbiamo bisogno di protezione. La follia è condizione comune. Tutto appare nel suo limite. Solo li, dove la follia è manifesta, nominata, domata: “E’ tutto un pompaggio e poi esci di cotenna”. Soli li, trovi il sublime, s’invera la purezza drammatica del dolore.
L’ “operatore” è l’ogetto d’amore, il mediatore, il neutro servitore che accudisce, prepara, accoglie. C’è lui tra il dentro e il fuori. Presente, nell’impossibilità, senza alcun potere se non quello del dono creativo. Sul limine della medicalizzazione.
C’è uno che dice, chiamando al telefono: “Pronto Vaticano? Ho una certa urgenza di parlare con il Papa!”. Ma il Papa non c’è, non risponde. Non parla il potere, non corrisponde! Parla lui soltanto, fa il dettato delle regole, del si può e il non si può. Il resto è “la famiglia umana”.
“Germogliavamo” dice qualcuno in scena ma “siamo come dei fiori spenti”.
“Ho amore e speranza” è che “manco di carità, è un pianto, un pianto”. Ecco, manchiamo di carità, di com-passione.
Questo è tutto. Tutto qui! Lo spettacolo non serve.

Mauro Marino
e.