domenica 11 maggio 2008

Del poeta, sempre, fanciullo!


di Vito Antonio Conte

Convivo con la follia: la mia. Campana mi fa compagnia. I Canti Orfici erano tempo fa. Oggi è Io poeta notturno. Si tratta di una raccolta di missive inedite di Dino Campana, pubblicate nella collana ocra gialla delle Edizioni Via del Vento. Qualche anno fa, su Musicaos, ho scritto delle diverse collane (oltre a quella già citata, ne conosco altre due: acquamarina e iquadernidiviadelvento) di questo editore toscano (con sede in Pistoia) e delle peculiarità e preziosità di questi libricini (di testi inediti nel formato 16 x 12), “usando” Sono fluito di Fernando Pessoa. Adesso faccio il contrario: il pretesto è il cenno all’editore per dirvi di Campana. Come posso. Come voglio. Non vi dirò della sua biografia: di Marradi, nell’Appennino tosco-emiliano, e di sua madre, Fanny, donna compulsiva, che trascurò Dino (quando nacque il secondo figlio, Manlio) al punto che l’assenza di affetto e le brusche reazioni materne segnarono l’inizio del male che contribuì alla fine del poeta in quel di Castel Pulci. Non vi dirò del suo divino cenciare errabondo reale e fantastico per luoghi che, invece di essere terre possibili, spesso, acuirono il suo disagio esistenziale (di Dino, che del nomadismo aveva pregna l’anima, sì da avere dell’esistenza una concezione anarchica e avventurosa). Nè vi dirò delle definizioni che, di volta in volta, critici invidiosi e letterati gelosi, sempre e comunque tardivamente, catalogarono la sua scrittura come frutto di un poeta visionario, allucinato, pazzo, orfico, vagabondo, mediterraneo. Nella migliore delle ipotesi. Invero, più spesso, Campana venne osteggiato, emarginato, deriso, escluso, ignorato. Nel mentre cercava unicamente di affermare il suo diritto di esistere. Neppure vi dirò di Boine, Novaro, Cecchi, Serra, Soffici e Papini (ed altri del suo tempo). Gli ultimi due, com’è noto, smarrirono il manoscritto dei Canti Orfici (originariamente titolato Il più lungo giorno) che Campana consegnò loro, nel dicembre 1913. Dello smarrimento Campana non riuscì mai a farsene una ragione. Sfidò Ardengo Soffici a duello. Minacciò di morte Giovanni Papini (memorabile una lettera del poeta a Papini datata 23.1.1916: “Se dentro una settimana non avrò ricevuto il manoscritto e le altre carte che vi consegnai tre anni sono verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia dovunque vi troverò”). Dopo averla faticosamente riscritta, pubblicò la raccolta, a proprie spese (si dice che fu organizzata –dal concittadino Luigi Bandini- una colletta tra ottanta persone, ma che alla fine soltanto la metà aderirono concretamente), nel 1914 presso il tipografo Bruno Ravagli di Marradi e ne vendette personalmente le copie in ogni modo. Il manoscritto fu ritrovato tra le carte di Soffici nel 1971 dalla figlia Valeria e, successivamente (nel 1973), pubblicato in due volumi dall’editore Vallecchi (cui, ironia della sorte, più di mezzo secolo prima, Campana aveva chiesto –invano- di pubblicarlo). Non vi dirò degli Autori che amava: Poe, Nietzsche, Whitman, Rimbaud, Verlaine, Eschilo… e Sbarbaro. E, ancora, non vi dirò della sua storia con Sibilla Aleramo (Rina Faccio) o di quella di Sibilla Aleramo con Dino Campana (…) e, credetemi, vorrei: è stato il rapporto amoroso e sessuale non solo più turbolento della letteratura italiana, ma anche densissimo di incroci, deviazioni, deragliamenti, curve e strade vietate da far invidia alla più grande metropoli conosciuta. Quando ho aggettivato il rapporto tra i due amoroso e sessuale, la disgiuntiva era voluta: sull’amore dell’Aleramo è stato detto di tutto e di più, ma è sufficiente leggere il carteggio tra l’Aleramo e Campana, pubblicato negli anni sessanta, per comprendere quanto quell’amore è stato incontenibile e devastante. Sulle prestazioni sessuali di Campana si dice fosse instancabile e pretendesse dall’Aleramo più di quanto (e, sicuramente, era molto) la stessa potesse. E, poi, sulla virilità del poeta, circolano diverse leggende metropolitane secondo le quali, nei periodi di internamento in manicomio, Campana si masturbava fino a quindici volte al giorno!?! Ma questo non lo dico. Invece, oltre l’essere debole e nevrotico, oltre le illusioni del crepuscolarismo e del futurismo, oltre ogni altra vana speranza di letteratura nuova, segnate dal sangue di Campana, dirò della sua avversione per lo studio e l’uso della metrica, del suo sentirsi il depositario dei segreti del mondo, del suo modo di disvelarli con i versi e del suo dolore per la miopia d’intorno, della sua rabbia per la cecità artata che lo costringeva a elemosinare la vita. E, dopo la riscoperta del 1968 ad opera del Falqui (noto il suo Saggio Campaniano su Novecento Letterario), desta senso sentirlo ancora definire poeta melodico e visivo, musicale e cromatico. O, nella più alta delle etichette, caposcuola della poesia moderna. C’è che la poesia di Dino Campana non è circoscrivibile nell’alveo di un movimento piuttosto che in un altro; non è classificabile secondo canoni ordinari; sfugge a qualsivoglia genere di definizione: perché è unica, com’è unico Dino Campana! E tanto emerge anche dalle missive raccolte in Io Poeta Notturno: mi piace ricordarne qualche passaggio: “Io sono un povero diavolo che scrive come sente: Lei forse vorrà ascoltare. Io sono quel tipo che le fu presentato dal signor Soffici all’esposizione futurista come uno spostato, un tale che a tratti scrive delle cose buone. Scrivo novelle poetiche e poesie; nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato. Aggiungo che io merito di essere stampato perché io sento che quel poco di poesia che so fare ha una purità di accento che è oggi poco comune da noi. Non sono ambizioso ma penso che dopo essere stato sbattuto per il mondo, dopo essermi fatto lacerare dalla vita, la mia parola che nonostante sale ha il diritto di essere ascoltata.” (da lettera a Prezzolini datata 6.1.1914). Da queste righe emerge tutta la fragilità e disperazione dell’uomo Campana e, ad un tempo, tutta la consapevolezza della potenza del suo essere poeta e, mi piace evidenziarlo, l’uso del verbo stampare in luogo dell’attuale pubblicare… Concetto che ritorna nella lettera a Emilio Cecchi, datata 2.5.1916, nella quale Campana denuncia: “immaginerà con quanto schifo sono obbligato a ricorrere a questi miserabili succhiatori del miglior sangue d’Italia che si chiamano editori. Abbastanza maramaldi ho già conosciuto per non aborrire certe nuove relazioni. Pure nella speranza di un qualche centinaio di lire eccomi qua a pregarla di darmi l’indirizzo di uno di questi cani la cui vigliaccheria assassina del pubblico da l’autorità di rubare senza disonore il sudore di noi saltimbanchi. (…) Non sono un vile e temo che la mia riserva di eroismo sia esaurita. Cardarelli mi scrive: crede in una gaia scienza: lui beato. (…) Confido che lui e altri più di me sapranno amare quel fantasma soleggiato di felicità che credetti intravedere molto tempo fa laggiù sul mediterraneo. Non creda che io lavori sul serio. Che cosa potrei fare. Il popolo è assente, la coscienza perduta e per diventare mistico non sono abbastanza vile. (…)”. Campana è fortemente deluso e incazzato per le sorti sue, della sua poesia e della poesia del suo tempo, ma continua a dire, con violenza, la sua condizione e le negazioni in cui si imbatte per affermare il diritto di vivere (seppur, anche) quella condizione. Fino allo stremo. Così andrà avanti. Fino alla dichiarazione ufficiale di essere pazzo della primavera del 1918 e a quella sorta di rassegnazione serena che si rinviene in una delle sue ultime lettere, quella scritta l’11.4.1930 a Bino Binazzi, nella quale, tra l’altro, dice: “Tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili…”.

E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera!

Chi non la conoscesse ancora la legga. È immortale. E Via del Vento è meritoria perché la fa circolare in quel formato (peraltro) di facile accessibilità.

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