giovedì 29 novembre 2007

di Eliana Forcignanò





“La mosca nel bicchiere”, ecco la poetica di Bene


Perché di Carmelo Bene (Campi Salentina, 1937 – Roma 2002) non si potrebbe o dovrebbe parlare? Forse, perché si tratta oramai di un mito, tuttavia i miti si costituiscono proprio attraverso la parola che li tramanda di gente in gente e la mitopoiesi è un’attitudine irrinunciabile dello spirito umano. Il razionalismo critico, però, ci suggerisce anche che i miti vanno indagati e contestualizzati al fine di comprendere le radici della loro grandezza e, se necessario, rielaborati senza cadere in una sterile agiografia. In altre parole, il contesto, la temperie culturale dal cui interno il mito “fuoriesce” è essenziale e merita di essere analizzata con acribia. Questo il lavoro di Stefano Di Lauro che, per I Libri di Icaro, ha pubblicato “La mosca nel bicchiere”, un saggio sulla poetica di Carmelo Bene contestualizzata nel panorama culturale novecentesco. Il volume è stato di recente presentato alla Città del Libro da Mauro Marino e Maurizio Nocera.
Una ricerca profonda, impegnata, cristallina quella che l’autore ha condotto ponendosi l’obiettivo di analizzare la “poetica esplicita” di Bene, ossia quella testimoniata dagli scritti che di lui ci sono pervenuti.
Affrontare il Bene pensiero – come di Lauro lo chiama – è un’impresa ardua, soprattutto perché numerosi sono i riferimenti alla cultura decadente e alla filosofia dei secoli diciannovesimo e ventesimo. Di Lauro li individua ed espone con chiarezza, risalendo la corrente di un fiume il cui corso pare essere infinito: “Lo zibaldone cartaceo oggetto di questo studio – scrive Di Lauro – non ha nulla della trattatistica; il materiale esaminato, benché libraceo, per forma e asistematicità rammenta certi taccuini nei quali si mescolano senza criterio note e riflessioni”. È vero, però che Bene ha sempre perseguito l’idea di una “sintesi tutta wildeana di arte e critica” e le due poetiche – implicita ed esplicita – sono andate di pari passo fino agli ultimi anni, “salvo alla fine del suo percorso quando gli intenti teorici si fanno così ambiziosi e rarefatti da non poter essere soddisfatti ragionevolmente che al prezzo del silenzio”. È impressionante constatare il retroterra filosofico dal quale il Bene pensiero trae nutrimento: lo Strutturalismo, Nietzsche, Schopenhauer, Deleuze, con il quale Bene ha persino collaborato scrivendo il volumetto “Sovrapposizioni”.
Ora, perché è importante questo saggio sulla poetica di Carmelo Bene? Perché, fino a oggi, pochi si erano preoccupati di esaminare gli antecedenti filosofici del Bene pensiero, limitandosi a rintracciarne esigue scaglie soltanto nella poetica implicita. Di Lauro, invece, scende in profondità, arriva a sceverare quel tema così scottante del “superamento dell’umano” sul quale Bene ha improntato gran parte della sua opera. Inutile dire che il “superamento dell’umano” richiama immediatamente alla memoria l’Oltre-uomo di Nietzsche che si erge al di sopra del caos prodotto dalla quotidianità, per trovare un ordine proprio che esula da quello dell’homunculus comune. Ben nota è l’esemplificazione dell’Eterno Ritorno che fa rifulgere in tutta la sua potenza l’Oltre-Uomo il quale dice sì alla vita, sì all’ “aion” contro il “chronos”, sì all’”ambizione di eccedere l’umano attraverso la forza eternizzante dell’Arte”. L’Arte, com’è noto, è una delle vie di liberazione dalla Volontà enumerate da Schopenhauer anche lui campione del pessimismo che ricompare in, una conversazione di Carmelo Bene con lo studioso Umberto Artioli, riportata nel volume “La mosca nel bicchiere”. Ma Di Lauro rifugge da una collocazione generica dei pensieri filosofici che hanno ispirato Bene e assegna a Schopenhauer il posto che gli compete nel Bene pensiero, ossia quello di “educatore” Quanto all’arte come liberazione dalla Volontà, Bene puntualizza: “L’arte davvero mi fa schifo. Mi interessa più il patologico, cioè il non quotidiano ma quello che, diciamo, in psicoanalisi si chiama, chiamavano immaginario”. Di Lauro interpreta questa affermazione come un moto di stanchezza dell’ultimo Bene che punta all’“eccedenza in sé”, finendo con il teorizzare una “regressione all’increato”, nel tentativo di sottrarsi alla “tirannia del simbolico”. Accanto a Nietzsche e Schopenhauer figurano altri nomi illustri come Stirner, De Saussure, i poeti italiani Manzoni e Leopardi. Ma se il pessimismo di Manzoni trova una consolazione nella vita oltre la morte e quello di Leopardi nella solidarietà fra uomini, per Carmelo Bene non c’è nulla che l’uomo possa fare al fine di migliorare la sua condizione. “L’orizzonte leopardiano della fratellanza – scrive Di Lauro – non ha spazio nel Bene pensiero, condizionato irrimediabilmente da una struttura (psichica, linguistica) inerte alla ragionevolezza del Compromesso e che non contempla il mutuo soccorso come modus universale e duraturo”.
Un’altra questione che non può non affascinare il lettore è la religiosità di Carmelo Bene: Di Lauro lo definisce un “agnostico inquieto, molto inquieto”. Per il Salentino vale il socratico “oiomai me eidenai”, “so di non sapere”, eppure la sua ricerca, la sua fame di trascendenza non cessa. Nel teatro di Carmelo Bene, secondo Alberto Signorini, vi è un’infinita, impossibile “nostalgia dell’Altro” e quando si dice Altro non si può non pensare a Dio. Quella di Carmelo Bene – secondo l’opinione di Signorini – è una religiosità barocca che si ricollega a una teologia negativa. Di Dio non si può dire nulla, perché “già dire è compromettere”. Carmelo Bene iconoclasta, cattolico non nel senso tradizionale del termine, bensì nel senso di essere cosciente della propria finitezza, di vivere perennemente a disagio come Kierkegaard scriveva ne “La malattia mortale”. Questo sentirsi perennemente in colpa ricorda molto la devozione veterotestamentaria, quando l’uomo, lungi dal mettersi in un rapporto alla pari con Dio, si prostrava dinanzi all’Ente Supremo che non osava nemmeno nominare.

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