venerdì 30 novembre 2007

Il Teatro e le Nuvole

Il mestiere dell’attore

per una educazione sentimentale

Mestiere|

esercizio di una attività lavorativa, frutto di esperienza e pratica.

Conoscere il proprio mestiere, essere abile e capace di un determinato lavoro.

Non essere del mestiere, mancare di pratica.

C’è sempre più diffusa attrazione per i mestieri legati allo spettacolo. Propagazione di virus mediatici; suggestioni del ‘successo patinato’ veicolate da format televisivi, ‘provinature’ e casting che disincantano la verità, l’appassionamento, quel seme, che genera e propaga, quel lento sedimentare fatto di curiosità, di sacrificio e di costanza; di ricerca e di sperimentazione. Provarsi, per definire il proprio sé, il proprio stile, la propria lingua. Rigore, strana parola. Parola necessaria che del mestiere è parte, fondamento e recinto del fare, del creare. Parlo di mestiere perché ritengo che questa sia la condizione dell’attore, del danzatore, del cantante, del creatore d’arte. Mestiere, perché è nella condizione artigiana che si consolida quella conoscenza, quella unicità che da forma ad un interprete. All’artista. Non c’è dunque una ‘professione’ da imparare, ma un percorso formativo a cui aderire, per corrispondere a quell’impulso, a quel desiderio/necessità di donarsi nell’atto creativo, nel tentativo di verificare e di corrispondere al proprio talento, di ‘certificare’ la propria vocazione. Farsi attori, costruire teatro, è costruire pratiche di attenzione e di ascolto, capaci di valorizzare la vita con le sue urgenze, i danni, le necessità, i valori di bellezza, le ferite e le opportunità.

La costruzione teatrale accade al presente, nel pieno esserci che, rompe l’assedio del giudizio, del non sentirsi in grado, dell’imbarazzo, della vergogna, della paura. Il teatro è gioco catartico, leva valorizzante di un processo relazionale capace di intercettare stimoli, frammenti di senso, comportamenti, lingue, che tenuti insieme, danno corpo all’agire, fanno la scena possibile, concretamente vicina alla necessità del dire che la motiva e la rende credibile, al di là della retorica e della leziosità, al di là di ogni patinatura. Già, il dire! L’ atto creativo si nutre di incontri, attitudini e vocazioni che scelgono di interagire, di darsi obiettivi e territori. Il teatro è luogo possibile di una sintesi che accoglie poesia per comunicare poesia. La parola, scritta e detta, la parola agita, portata al corpo: la poesia - complessità nell’ approccio col Mondo, visione della vita. Luogo di una comunicazione sensibile e altra, capace, nel tentativo, di stanare il segreto che l’esperienza della vita trattiene. E’ dunque necessario, per l’attore, il danzatore, il cantante, per il creatore d’arte un lavoro intorno a quella soglia labile che fa catarsi l’esperienza della parola, la voce sentita, detta, scritta. Il foglio, il corpo, col suo ricordare, col suo farsi magazzino di pratiche, di poetica. Il verso che è sempre racconto (simbolico, mai astratto) del sentire d’ognuno. La poesia è atto concreto, intimo. E’ soprattutto accorgersi. E’accoglimento del sentire, dell’affermare, dello svelare, prima di tutto a se stessi ciò che risuona col dire, quel carico capace d’alleggerirsi quando riesce a snidarsi e a nascere parola, svelante, vibrante, lirica ed epica, semplice verso che fa conforto, sfogo, preghiera e canto.

Per questo ritengo necessario un ritorno all’esperienza della pratica teatrale, come azione volta alle singole individualità in una tensione profondamente corale - di gruppo che si mette alla prova, insieme gioca, sperimenta, ricerca, affina il dire, la propria unica lingua - capace di mettere in gioco corpo e presenza. Sentire sé e la coralità nell’attenzione aperta alla dinamica che la scelta di messa in scena elabora, esserci come corpo agente, essere azione, inoltre al sentimento del limite. Agire la scena è dimenticanza del sé, depensamento (Carmelo Bene), è puro atto, rito, respiro e sudore. È, soprattutto, disattivare la pretesa di apparire, del mostrarsi belli, senza disagio. È farsi umili, vicini alla propria inquietudine. È comunanza d’esperienza, tecnica necessaria verso lo svezzamento delle personalità, che trovano ruolo vocazionale nel gioco della mettere in scena. Nel gruppo. Che condivide responsabilità e cura nel fare insieme, attenzione e dimenticanza, di un sé pensante e critico che trova abbandono nel suo servire l’intento creativo, l’opera comune, dove l’uno è perché è con l’altro.

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